Cardiopatici, si può andare in montagna a 2.000 metri
Chi ha detto che i cardiopatici non possono andare in montagna? Possono farlo, naturalmente con le dovute cautele. Lo dimostra l’esperimento condotto in estate dall’Associazione Cuore Sano in collaborazione con la Riabilitazione dell’Ospedale Santo Spirito e il gruppo di Montagnaterapia. Una volta (fino a non molto tempo fa) la terapia principe per il cardiopatico era: riposo assoluto a letto per settimane durante la fase acuta, poco movimento anche nella fase cronica. Da allora molte cose sono cambiate, molta acqua è passata sotto i ponti, nuovi sentieri sono stati percorsi, ed ecco allora che la domanda “Dottore, posso andare in montagna?†diventa legittima.Scarica il file
L’ambiente montano si caratterizza per l’ipossia, cioè la riduzione della pressione parziale di ossigeno o in altri termini la riduzione dell’ossigeno “fruibile†dal nostro organismo, la diminuzione della temperatura e dell’umidità dell’aria, l’aumento della ventilazione, l’aumento dell’irraggiamento per la diminuita densità dell’aria, caratteristiche che variano in maniera progressiva con l’aumentare della quota. Allora è fondamentale stabilire di quale montagna parliamo, a quale quota si intende andare. Per semplificare, parliamo di bassa quota entro i 1800 m., media quota tra i 1800 e i 3000 m., alta quota tra i 3000 e i 5500 m., altissima quota sopra i 5500 m.
Alle basse e medie quote la saturazione di ossigeno non subisce grosse variazioni, con modificazioni quindi trascurabili della ventilazione e della frequenza cardiaca e trascurabile è il carico di lavoro aggiuntivo. Oltre i 3000 m., invece, per mantenere un sufficiente apporto di ossigeno alle cellule, il cuore deve essere in grado di pompare quantità di sangue adeguate alle maggiori esigenze dell’organismo.
Pertanto alle basse e medie quote i rischi per i cardiopatici non sembrano tanto legati all’ipossia quanto ad altri fattori, come il freddo intenso o situazioni di pericolo estremo che potrebbero provocare un eccessivo stimolo emotivo e quindi vanno evitate.
La domanda corretta è allora: tutti i cardiopatici possono andare in montagna? Dai lavori esistenti in letteratura, che riassumono alcune esperienze pilota effettuate su piccoli gruppi sia in Italia che all’estero, si può desumere che non esistono controindicazioni assolute allo svolgimento di esercizio fisico di intensità moderata in montagna, a bassa e media quota, per soggetti selezionati, con cardiopatia ischemica stabilizzata e recente valutazione clinica e funzionale favorevole. Nei soggetti ipertesi è possibile un incremento dei valori di pressione arteriosa nei primi giorni di permanenza in quota che può necessitare di un aggiustamento terapeutico.
Un aspetto rilevante è costituito anche dalla montagna come impegno mentale. Chi ha vissuto l’esperienza della malattia, e soprattutto di un evento acuto grave tale da mettere in discussione la propria vita come è il caso di alcune persone che hanno avuto un infarto miocardico, rimane profondamente segnato da questa esperienza. L’attenzione è sempre rivolta – in maniera quasi ossessiva – alla malattia, al sé malato; c’è un’attenzione amplificata al sintomo, alla ricerca di qualsiasi piccola spia di un nuovo attacco, la paura di stare male di nuovo, di nuovi ricoveri ecc. . La montagna costituisce uno stimolo multisensoriale (visivo, olfattivo, propriocettivo…) avvolgente, coinvolgente, totalizzante e proprio per questo “distraente†rispetto alle proprie ossessioni, “ristorativo†rispetto alla fatica degli abituali percorsi mentali.
E’ da questi presupposti che è nato il progetto della “due giorni al Terminillo†che ha visto protagonisti undici pazienti ischemici di eta’ compresa tra 59 e 78 anni, che svolgono un programma di riabilitazione cardiologica. Tutti avevano avuto un infarto miocardico o un’angina instabile, dieci di essi erano stati rivascolarizzati completamente o parzialmente con by-pass o angioplastica, e sono stati sottoposti ad accertamenti clinici e strumentali prima della partenza che accertassero il grado di stabilità della malattia.
La funzione di pompa del cuore era in alcuni nei limiti della norma, in altri moderatamente compromessa: maggiore o pari al 40%. Durante i due giorni, che comprendevano un pernottamento a Pian de Valli (1600 m.), si sono svolte escursioni sul massiccio del Monte Terminillo raggiungendo la quota di 1900 m. I pazienti sono stati continuamente controllati con monitoraggio della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa e alcuni anche con holter (ECG dinamico delle 24 ore). I pazienti hanno reagito molto bene all’esperienza, non vi sono stati problemi maggiori, un paziente durante l’escursione del primo giorno ha avuto un malessere per il quale è stato prontamente soccorso e assistito e tutto si è per fortuna risolto per il meglio. L’esperienza è stata sicuramente positiva, tale da giustificare l’insistenza con cui è stata sollecitata una sorta di “istituzionalizzazione†dell’iniziativa. Ritengo che la richiesta sia giusta e che vada accolta. Arrivederci all’anno prossimo.